Una vendemmia davvero precoce.
Il caldo e la siccità dettano i tempi.
Da sud a nord, i grappoli ormai, sono definiti; i filari danno l’idea di quanto sará importante il raccolto.
In effetti, questa è una dualità che non esiste, perché serve l’una e serve l’altra.
Vendere uva o produrre vino è probabilmente più uno scontro generazionale, che filosofico.
Il pragmatismo delle vecchie generazioni, mentalmente pigre, che monetizzano il raccolto alla vendemmia, sono funzionali ai grandi brand, che necessitano di prodotto, di uva, in alcuni casi di vino.
Regola comune è il basso costo, in barba alla sostenibilità, speculando sul ristoro dei coltivatori.
La nuove leve, invece, genericamente, guardano più lontano. Il mantra della cantina affascina. Fanno i conti per i processi di trasformazione e iniziano ad imbottigliare. Alcuni sono anche capaci di gestire le criticità climatiche e sanitarie. Ma nella maggior parte, l’inesperienza riempie i depositi di bottiglie, che rimangono invendute o nel migliore dei casi, svendute ai “commercianti” e piazzate nella gdo a prezzi imbarazzanti.
Poi, c’è chi ha capito che fare vino è un’impresa. Mentalità da azienda. Agricola solo perché il campo da gioco ha i solchi, va zappato e non calcato. Parametri, inderogabili, da rispettare. Serve un’idea chiara, un progetto, un piano di fattibilità, sostenibile (sia in termini economici che etici), un piano strategico, di comunicazione e di marketing. Agronomo, biologo, enologo, figure chiave. Analisi dei terreni, rispetto del territorio, tecniche di allevamento e di trasformazione e così via.
Poi, con le giuste relazioni, si può pensare a competere.
Per essere più espliciti, si può osare un parallelo con il calcio:
𝐏𝐨𝐜𝐡𝐢𝐬𝐬𝐢𝐦𝐢, solo le eccellenze, giocano in champions e fatturano cifre blu. Grandi vini e grandi enologi sono un binomio ricorrente, abituale.
𝐀𝐥𝐜𝐮𝐧𝐢, quelli che hanno capito come si gioca, si danno da fare nei loro campionati. Standard qualitativo garantito, buona comunicazione, buone strategie di mercato. Portano a casa il risultato, togliendosi anche qualche soddisfazione.
𝐀𝐥𝐭𝐫𝐢, la maggioranza, cercano di emergere, sgomitando, nelle serie inferiori. 𝐃𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐢, alcuni pagano gli azzardi, ad altri va meglio.
Molto spesso i conti sono a limite.
Gli ottimisti, giustificano il mancato
ricavo, considerandolo un investimento; quelli che il bicchiere lo vedono mezzo vuoto, fanno l’ultimo sorso e tornano a zappare, nell’accezione più “faticosa e pura” del termine.
C’è solo una consapevolezza che muove tutti: 𝒊 𝒄𝒐𝒍𝒕𝒊𝒗𝒂𝒕𝒐𝒓𝒊 𝒅𝒊𝒓𝒆𝒕𝒕𝒊 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒊 𝒗𝒊𝒗𝒂𝒊 𝒆 𝒔𝒐𝒏𝒐 𝒂𝒏𝒄𝒉𝒆 𝒊𝒍 𝒑𝒂𝒍𝒍𝒐𝒏𝒆, s𝒆𝒏𝒛𝒂 𝒏𝒐𝒏 𝒆𝒔𝒊𝒔𝒕𝒆𝒓𝒆𝒃𝒃𝒆 𝒊𝒍 𝒄𝒂𝒍𝒄𝒊𝒐.