La “Carminuccio” è un’icona della Salernitanità nel mondo.

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C’è qualcosa che va oltre il semplice concetto di pizzeria.
C’è qualcosa che va oltre il ricordo di diverse generazioni.
C’è una storia, scritta nel segno della semplicità e della tradizione, che si tramanda naturalmente.
Un gesto di rispetto per qualcuno, voler marcare o ricondurre un legame con il territorio per tanti altri: le motivazioni si nascondono dietro le varie sensibilità personali.
Il dato oggettivo è che la pizza “Carminuccio” è presente nei menu di tantissime pizzerie.
Ha valicato i confini, prima provinciali, poi regionali, sbarcando negli Stati Uniti e chissa dove ancora, nei più remoti angoli del pianeta, dove magari ha trovato casa qualche emigrato Salernitano.
Se torniamo indietro nel tempo, nella “opulenta salernum, quella della scuola medica salernitana, qualche fonte di ispirazione si potrebbe trovare, legata più che altro alle piante ed al loro utilizzo, sia in medicina che in cucina.
Nel corso dei tempi si sono tramandate esperienze: ci sono pietanze che hanno un forte accento locale, come ‘a meveze mbuttunat’, le alici panza e panza, ma nessuno di questi è stato esportato nel mondo, come piatto identitario.
Abbiamo dovuto aspettare ai giorni nostri, alla fine del secolo scorso per trovare qualcosa che universalmente si legga “Salerno” comunque si pronunci.


Era agli inizi degli anni ‘80, post terremoto, e nella zona orientale, quella che allora delimitava il confine urbano, alle spalle del cavalcavia, dietro il maestoso Pastificio Amato, c’era una veranda spartana, di alluminio e lamiere, fredda d’inverbo e calda d’estate, in cui un giovane pizzaiolo aveva aperto la sua attività.
Arredamento senza pretese, senza tovaglie e bicchieri. Un sistema semplice: entravi, ordinavi alla cassa, pagavi e prendevi il tuo numero, intanto cercavi un tavolo che si liberasse e davi anche una mano a pulirlo se necessario. Quando d’inverno il freddo si faceva serio, il camino a stufa centrale era sempre carico di legna, i carboni roventi. Sotto ogni tavolo c’era “ ‘a vrasere” e una persona, la stessa che rassettava il tavolo, passava con una pala a ricaricarla, per tenere caldi i nuovi avventori.
61, è pronto il 61: c’era una eco. Tutti quelli che aspettavano, controllando che il numero fosse il loro, lo ripetevano ai loro vicini.
Bisognava essere rapidi nel ritiro, ma soprattutto abili.
Un foglio di carta oleata e sotto uno di carta pane; la pizza tagliata in 4 spicchi. Si prendeva dagli angoli e si andava al proprio tavolo per consumarla, cercando di non farla cadere e di non sporcarsi. Il primo morso era sempre ustionante, ma era parte della gioia: si godeva il momento.


La prima era sempre una margherita, semplice, quella che piaceva a tutti.
Poi c’era quella della condivisione: ne mangiamo un pezzo a testa? Ne facciamo fare un’altra?
Carmine, falla a piacere tuo.
Da quel “falla a piacere tuo” è stato un attimo a dare il nome a quella pizza.
Oggi tutto questo è lo splendido story telling che si può raccontare, quando si mette questa pizza in carta.
Le profonde trasformazioni che questo mondo sta vivendo, ha indotto una naturale evoluzione, frutto di studio e di ricerca.
Quello che arriva a tavola oggi, è la sintesi di un lavoro di squadra, non solo quella presente nel locale; donne, uomini, la loro storia, le loro esperienze artigianali.
Si narra la filiera. Il singolo racconto di ogni prodotto che la compone, dall’alfa all’omega.
Pensare che un po di guanciale, del pepe e del pomodoro resistessero al tempo era impensabile, ma la cosa fantastica è questa: come non rendere omaggio all’uomo ed alla sua intuizione geniale?

La Carminuccio week ha l’intenzione di commemorare l’uomo, ma soprattutto di salvaguardare la memoria, affinche non si spenga nel tempo.

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